Racconti Brevi

Parole per descrivere la realtà

Ariel Francy

5/8/202418 min read

Genitori Alieni

Racconto Vincitore del Premio AIDO Coccaglio 2024

Figli diversi, diventati diversi, nati diversi, esploratori di mondi diversi in viaggio sulle strade di questo mondo. Individui montati al contrario, diversi da tutti e per prima cosa da… te. È questo che fa di te un genitore alieno, atterrato per sbaglio, da un pianeta lontanissimo, tra i genitori perfetti della terra.

Ora vi spiego il motivo per cui i genitori alieni tendono a starsene chiusi in casa e a farsi vedere in giro il meno possibile. Così, se per sbaglio, vi è capitato di volere bene a qualcuno di loro, ma a ogni proposta per vedervi vi sentite dire continuamente “no… non posso”, “oggi mio figlio è stanco, è malato, è sabato, è chiaro, è scuro e proprio no”, anche all’ultimo momento, anche mentre siete li ad aspettarli, ne capirete il perché. E, forse, continuerete a volergli bene.

E ve lo spiego parlandovi di me. Si, perché anche io sono un genitore alieno.

Il parco giochi, così come ogni festa di paese, spiaggia, gonfiabile o spettacolo di maghi per strada, non è un luogo pubblico. No, tutti questi posti sono in realtà una proprietà privata ed esclusiva delle famiglie neurotipiche, ovvero, le famiglie non aliene. Sono loro che come gendarmi divini controllano i confini del divertimento infantile, cacciando dal cerchio ogni essere divergente, ogni persona che non riesca a stare seduta, che non scambi le figurine dei Pokemon, che non usi lo scivolo dalla parte giusta, che preferisca parlare da solo, che guardi altrove mentre gli porgi la merenda, o non ami l’anguria l’estate, e, soprattutto, che non si accorga dell’esistenza di una qualsiasi fila di attesa, perché questo è il vero male da estirpare nei parco giochi neurotipici: le file.

E se sei un genitore alieno, tu sai che gli altri genitori lo hanno visto prima di te. Solitamente in modo inversamente proporzionale all’età di tuo figlio, perché si sa, più si è piccoli e più stranezze sono concesse; ma se ad una certa età di tuo figlio (decisa arbitrariamente dai non alieni) le stranezze non sono finite e tu arrivi a meritarti l'etichetta di “alieno”, la punizione del branco sarà implacabile.

In un secondo ti ritrovi scomunicato dalle feste di compleanno, dai caffè al bar la mattina dopo aver accompagnato i figli a scuola, dai pigiama party e dalle feste in piscina, anche se a tuo figlio la piscina piace talmente tanto che avrebbe fatto persino la fila. La scomunica sociale è la dimostrazione che non tutti i bambini rientrano nel democratico “sono bambini”. Alcuni devono solo stare a casa loro, genitori compresi. Perché i genitori dei parchi giochi sono immensamente più portati a giudicare che ad aiutare.

Eppure, a volte, i genitori alieni disobbediscono. A volte loro escono. Provano ad andare in spiaggia, al parco giochi e alle feste. Lo sanno che non è loro concesso, ma ci vanno lo stesso.

Nell’Ottobre del 2017 successe anche a me. Andai alla festa di Halloween nel quartiere. Tommaso adora Halloween, e, di conseguenza, anche suo fratello Davide. Del resto, lui adora tutta la cultura americana. La mattina mi chiede uova e succo di frutta, pan cakes e a novembre il tacchino fritto, non conosce carnevale e gli unici gesti sociali che usa sono i tipici saluti con le mani dei soldati americani. Avrei così tanti esempi da portarvi che alla fine credereste anche voi nella reincarnazione. Per cui, si, è fatta. Si va in una occasione sociale. Nulla dovrebbe andare storto. Infilo un urlo tra gli intrecci rumorosi di casa mia: “Bambini! Andiamo alla festa di Halloween?” e attendo fiduciosa la risposta. Qualcuno stavolta sarebbe stato felice di dirmi sì. E infatti…

“Oh… la festa di Halloween. Perché no? Forza Davide vestiti che andiamo. Mamma posso mettermi la mia felpa con lo scheletro?”

“Ovvio che si Tommy”.

Bene, le premesse sembrano delle migliori. Mi azzardo a rispondere su WhatsApp un “ok ci vediamo li” all’unica amica dei tempi dell’asilo che ancora mi invita a qualche evento mondano (persino insistendo se dico di no) e mi equipaggio di una buona dose di fiducia nel mondo.

La vestizione procede velocemente, non posso crederci, stavolta ci si dovrebbe divertire veramente. Tommy accetta anche di mettere il maglione di lana sotto la felpa scheletro, senza supervisionare che tutte le etichette siano state tolte, e Davide si veste con una vecchia giacca da sci la cui fantasia ricorda, vagamente, una tartaruga Ninja… e che dire? Tutto perfetto!

Guidando mi faccio parecchi film mentali, spero di riuscire a riallacciare qualche vecchia conoscenza dell’asilo, così da non essere proprio fantasmi dimenticati da Dio quando l’anno prossimo saremo in prima elementare. Avere figli che non interagiscono con gli altri bambini ti obbliga ad essere te il jolly della situazione, o si finisce isolati dalla società e io che diamine, sono neurotipica, un qualche rapporto umano mi ci vuole!

Arriviamo alla festa, in lontananza scorgo il casino di bambini saltanti e urlanti, che mi si avvicina, passo dopo passo, e comincia a mancarmi il respiro. Mi guardo attorno per essere sicura di avere sottocchio entrambi i miei figli e cammino verso la gente, verso i bambini senza bisogni speciali. Appaiono e poi scompaiono facce conosciute, trucca bimbi a cui, già lo so, noi non ci fermeremo, baby dance a cui, già lo so, noi staremo a grande distanza, e tante piccole streghe carine con cui noi non giocheremo. E niente, speriamo non succeda nulla.

Siamo io e i miei due amorevoli piccoli mostri, uno scheletro e una tartaruga ninja, tra centinaia di persone che sanno stare in fila. Eppure, anche in questo caos io mi sento sola. Mi giro, mi rigiro, mi fermo. Accidenti, si sono sola. Nessuna mamma che mi viene incontro per salutarmi, solo veloci sorrisi in lontananza, a cui rispondo speranzosa. I miei bambini che provano ad avvicinarsi a qualche stand, che dribblano altri bambini goffamente, colpendone ogni tanto qualcuno.

E io? Io pervasa dall’ansia, mentre cerco di non perderli, controllo che la mamma dell’ennesimo bambino colpito dai movimenti sfarfallanti di mio figlio, non abbia visto perché, se avesse visto, le basterebbe un attimo per tirare su un caso da bomba atomica. Si sarebbe ricordata di me all’infinito e in un attimo si sarebbe volatilizzato un gruppo giochi al parco, quello dove le mamme portano un numero contatissimo di merendine solo per pochi bambini eletti, di cui noi non facciamo mai parte.

Solo perché i miei figli durante una litigata non li sentirai mai dire “non è vero” o “non ho fatto apposta”, sono sfortunatamente convinti di dover per forza urlare “si ti ho colpito! E lo rifarei ancora perché è colpa tua!”, “ti chiedo scusa ma non mi pento”. E mentre il bimbetto dall’altra parte, dopo averli presi in giro o spinti, spergiura in un linguaggio neurotipico di non aver fatto nulla (e sicuramente sarà creduto), qualcuno sta trascinando via di peso i miei figli che ancora urlano “siii, certo che sono stato io!!”... e una merendina, un invito a bere il caffè o una festa di compleanno scompare inesorabilmente.

Uno sguardo alla mia prole, a quello che parla da solo e a quello che non sa dove inizia la maledetta fila, per ora tutto nella norma, la mia norma.

Finché all’orizzonte compare lui, un bimbetto vestito da cowboy fantasma, fermo a fissare nella direzione verso cui mio figlio parla da solo, con quella faccia sbiadita da neurotipico che non capisce come mai non ci sia un bambino vero ad ascoltare le farneticazioni di mio figlio.

Sconsolata cerco di dare una mano alla sorte e dico: “Bambini andiamo più in là” … a parlare da soli. Magari mi salvo la possibilità di fare una chiacchierata con qualcuno fuori da scuola, se evitiamo di metterci nei guai, ma, a quanto pare, il destino aveva piani diversi per me quel maledetto pomeriggio.

“Signora lui è speciale?”.

Ecco, non avevo dubbi.

Un universo di parole possibili mi attraversa la testa, ho l’attenzione di un giovane essere umano, posso finalmente provare a spiegare le cose a un cucciolo d’uomo.

“Si certo, bambino, è speciale, così come sicuramente lo sei anche tu”.

E mentre nella mia testa scorrono mille altri discorsi possibili sulla neurodiversità, l’accettazione, l’empatia e i sentimenti, il bambino decide di parlare, nuovamente.

“No, io intendevo pazzo”.

Sarà che uno dei miei figli proprio in quel momento ha iniziato a toccarmi compulsivamente il braccio mettendomi ansia… ma non nego che avrei voluto prenderlo per il collo quel bambino impertinente, che si arrogava il diritto di fare notare a una madre di avere un figlio pazzo.

Avrei voluto dirgli: grazie bambino, se non me lo dicevi tu vivevo nell’ignoranza! Anzi sai che c’è? Potrei portarlo dal neuropsichiatra? Eh? Che ne pensi tu luminare della psichiatria vestito da cowboy?

E invece gli rispondo: “E che ne sai tu dei pazzi?”.

“Ce n’è uno anche a scuola mia”, mi disse tranquillo.

“Ah beh allora sì, che sai tutto!”.

Improvvisamente nella mia testa si accende un maxischermo cinematografico durante la proiezione di un film western, in quel momento di caldo afoso e silenzio prima di un duello.

“Bambino. Guardami negli occhi”, almeno tu che in teoria sai farlo, “la parola pazzo non esiste più. Ora c’è una parola per ogni neurodiversità. Bambino. E sono certa che pure tu…”

“Ah, hanno cambiato parola?”, rispose come se stesse parlando di figurine.

“Si, bambino, annota…”.

“Mamma, Mamma!”, incalza Tommaso.

“Un attimo amore, finisco un discorso e arrivo”.

“Mamma!! Andiamo via!”

“Un attimo, Tommy ti ho detto che…”

“Ma non ci sono le zucche giganti e nemmeno i dolcetti a fantasmino, ma che diavolo di festa di Halloween è mai questa? Portami via mamma, ti prego”.

Il retro del cavallo ondeggia camminando verso il tramonto, la pistola fumante del cowboy tenuta in alto in segno di vittoria, e io, riposta la mia nella fondina, decido di lasciare il campo di battaglia al bambino impertinente.

“Hai ragione”, dico a mio figlio senza puntualizzare sul fatto che, dopotutto, il trucca bimbi, la baby dance, le bancarelle di dolci e lo spettacolo del mago c’erano.

Colpito da quanto in fretta gli avevo dato ragione, Tommaso incalza per non perdere il vantaggio: “Andiamo a casa adesso”.

Scusa Billy the Kid riprenderemo il discorso più avanti. All’università magari.

Stremata, stavolta anche io penso che sia meglio andarsene senza sfidare ulteriormente la fortuna, non vedo volti amici, ma solo segnali di pericolo che si illuminano ovunque. Billy the Kid era già ripartito per nuove avventure e io risvegliandomi dai pensieri, guardo in giù verso il mio piccolo scheletro in attesa di risposta e dico “Si, andiamo, chiama Davide”.

“Scusi”, una voce adulta, femminile che mi chiama.

Sempre speranzosa negli esseri umani e cercando un appiglio emotivo spero in una amica, mi giro e rispondo: “Si, dimmi”.

“Sono la sua mamma di quel bambino”, indicando Billy the Kid. Non si prospettava nulla di buono per me dallo sguardo che aveva, e infatti mi disse “posso sapere cosa voleva da mio figlio?”.

Cosa volevo io? Tuo figlio si è preso la briga di venirmi ad informare che ho figlio un pazzo. E invece prendendo l’ultimo spunto di energia le rispondo: “Lasci stare signora. Ci siamo già sistemati suo figlio ed io”.

“Siete a posto quindi?”.

“A posto”.

Mi giro e me ne vado. D'altronde cosa può mai uscire di interessante da quell’essere umano?

E nemmeno mezzora dopo essere arrivata alla festa, sono di muovo in macchina verso casa, probabilmente con un nuovo mandato di cattura internazionale in quel luogo, ma felice di non avere perso nessuno dei miei due figli. Perché non è nemmeno questa una cosa tanto inusuale.

Ecco. Se vi chiedete cosa significa essere genitori alieni, significa questo, niente di più niente di meno. Non fraintendetemi, siamo comunque genitori di esseri umani, ognuno col suo carattere, ma sono esseri umani nati diversi dalla maggioranza, individui uguali a troppe poche altre persone nel mondo per essere presi in seria considerazione, bambini in un mondo non costruito per loro, rumoroso, affollato, incomprensibile, irraggiungibile e a tratti sfuocato.

Piccoli punti di colori in sequenze contrarie, che cercano il loro posto nel dipinto dell’esistenza. Apparendo e sparendo fra le case, le strade, le persone disegnate perfette. I loro disegni non sono paesaggi lineari, case quadrate con i tetti rossi e il fumo che esce dal comignolo; sono buchi neri e alberi verdi sotto e marroni sopra, sono sinfonie che danzano snodandosi tra scale di note che appaiono e scompaiono per non lasciarsi imprimere sullo spartito.

Figli tuoi, cresciuti dentro la tua pancia, usciti da te, non caduti dal cielo, niente affatto portati dalla cicogna o lasciati sotto il cavolo. Li hai visti nelle ecografie muoversi in modo talmente perfetto, contando le loro piccole dita mille volte, per assicurarci fossero sempre dieci. La bocca perfetta sembrava parlarmi dall’utero, nati come tutti gli altri, nutriti come gli altri al mio seno rigonfio, mentre li guardavo negli occhi solo io, ma che importa.

No, tu non sei diverso figlio mio, io lo so, ti ho visto neonato, ti ho sentito nella mia pancia. La mia pancia umana.

Tu sei umano, sei solo nato in un mondo colonizzato da codardi.

Mattia

IL RACCONTO E' STATO PUBBLICATO SULLA ANTOLOGIA "NO ALLA VIOLENZA SULLE DONNE" VOL 2 - di HISTORICA Ed. 2025

Mattia è un uomo alto, biondo e con gli occhi verdi. La sua figura è immersa in un’aura misteriosa e maledetta, forse più adatta a un corvo nero che a un biondo dio oriundo.

Raccontava poco di sé e del suo passato, giusto una manciata di episodi che, però, fornivano indizi fondamentali per capire molto di lui e delle sue scelte; ma cominciamo dall'inizio, la vita di Mattia era iniziata per un disguido, lui è sulla terra perché sua madre non aveva preso bene la pillola.

Quando lui parlava dei suoi primi anni di vita a tratti sembravano il manuale della famiglia cuore e a tratti l'esatto contrario. Una villetta, un cane, un padre che lavora nell’azienda di famiglia, una madre bellissima e intelligente, un fratello maggiore amorevole e poi Mattia, il piccolino, che all’asilo era il bambino più sveglio di tutti: “mi ricordo che una volta ho raccontato le mie vacanze sul palco e tutti mi hanno battuto le mani!”, rammentava spesso riportandomi con lui indietro nel tempo. E poi dal nulla nei racconti del suo passato, ricordi felici come questi si stemperavano spesso in episodi del tutto diversi: “quando mio padre tornava a casa ubriaco mi tirava fuori dal letto mentre dormivo per picchiarmi. E solo mio fratello mi difendeva”, raccontato cos', in modo secco e senza aggiungere altro. La sua vita prima dei sei anni era trascorsa semplicemente così.

Una mattina fresca di settembre la sua vita cambiò definitivamente. Il primo giorno di elementari iniziò a 64 km dal suo papà, in una città nuova dove si parlava una lingua diversa, e dove lui, biondo con gli occhi verdi, era passato da idolo dell’asilo a stupido «crucco» delle canzoncine dei bulletti di buona famiglia. Prima e seconda elementare passarono come un brutto sogno fatto di maestre intransigenti, ragazzine impertinenti e una lingua difficile da imparare senza accento, ma che lui si sforzava moltissimo di padroneggiare per essere finalmente come tutti.

Proprio quando sembrava aver ritrovato una certa routine quotidiana, il primo giorno di terza elementare si era ritrovato nuovamente in un una scuola nuova. Mamma gli diceva che lì sarebbe andato tutto meglio, ma meglio di cosa lui proprio non lo capiva. Quella scuola, inoltre, era molto lontana da casa sua e mamma voleva che prendesse l’autobus di linea al ritorno; ma Mattia aveva paura di farlo e ogni mattino, prima di salire su quel mezzo sconosciuto, da solo, voleva urlare alla sua mamma “ferma, aspettami”, ma, tutte le volte, quando trovava il coraggio, lei era già ripartita per andare al lavoro. E a lui non rimaneva che salire verso l'ignoto, da solo. Non mi ha mai veramente spiegato come abbia fatto un bambino di otto anni a sopravvivere a questa solitudine, a questa angoscia, Mattia era solo costantemente, solo alla scuola elementare e poi alle medie, solo in vacanza al campeggio con suo fratello, ai corsi di sci la domenica e in ogni attività che lo tenesse occupato finché mamma era a lavoro o fuori col fidanzato di turno, mentre suo padre si rifaceva una nuova vita, con la giovane segretaria del suo lavoro perfetto a 64 km da Mattia.

Finite le medie, tra sospensioni, espulsioni, sigarette, birre e ancora cambi di scuola, un giorno di fine dell’estate si ritrovò obbligato dalla madre ad andare di nuovo in classe: “Istituto alberghiero, inizi domani”. Non fare felice la madre era qualcosa che gli causava emozioni sgradevoli e così docile iniziò anche questa scuola. Sorprendentemente in poche settimane Mattia diventò il più bravo di tutti. Era come essere di nuovo al suo asilo fra i monti, ma soprattutto, sua madre in quel periodo era tremendamente felice di lui; e poi, quando a Mattia fu chiesto di scegliere che indirizzo prendere per gli ultimi anni di studi, lui fece la sua personale scelta facile e sbagliata, decise di diventare barman, ovvero quella persona sempre in mezzo ad alcol, fumo e persone in cerca di questo.

I racconti di Mattia, da quella scelta di vita in poi, erano sempre i più confusi. Come dei flash ogni tanto raccontava episodi strani e sconnessi: una missione come cecchino in una terra lontana martoriata dalla guerra, una amata compagna morta travolta da una macchina mentre in grembo portava suo figlio, e poi atti di violenza, l’obbligo di firma in procura, pistole puntate, bottiglie rotte in testa, risse, ospedali e un cane pericoloso vissuto con lui parecchi anni. Tutto lungo gli anni passati come gestore di un bar da lui definito uno dei migliori della sua città, quella stessa città dove andò a vivere molti anni prima con la mamma e il fratello. Quando l’avventura con il bar finì, per motivi che non mi sono mai stati chiari, Mattia comprò una casa per sé e per sua madre (forse) e cominciò a lavorare sottopadrone, nella piccolissima azienda a conduzione famigliare dove ancora lavoro io. Diceva che preferiva così rispetto al bar milionario, perché non aveva responsabilità aggiuntive dopo aver fatto le sue ore.

Arrivò in ufficio la prima volta un giorno di fine inverno, con la felpa abbondante e i pantaloni della tuta, timido come un ragazzino delle medie, ma con vividi occhi verdi e non potei fare a meno di notarlo. Ci incontravamo ogni giorno alla pausa caffè e chiacchieravamo. Io avevo una situazione difficile in famiglia e vedermi con lui era rilassante. A volte, arrivava tardi a lavoro, diceva che doveva occuparsi della madre malata, ma non voleva domandare le ore di 104 e io non capivo perché preferisse usare scuse accampate e ferie. Ho cercato di chiederglielo, ma lui glissava e io capii in fretta cosa potevo o non potevo chiedergli.

Il nostro rapporto intanto si fortificava. Ci scrivevamo a qualsiasi ora del giorno e della notte, e un giorno, dal nulla, lui mi scrisse una cosa a cui, lì per lì, non avevo dato la dovuta importanza. Mi scrisse “Io bevo”, e io, senza pensarci troppo risposi “non fa niente”, perché pensavo che una persona come lui non potesse avere problemi troppo insormontabili, Mattia è meraviglioso e sicuramente non esagera mai. Ci mettemmo insieme, lui era perfetto, anche se ogni tanto scompariva per giorni, ma io pensavo che vista la situazione difficile che avevo io in famiglia, fosse capibile sparire ogni tanto, che insomma fosse colpa mia.

Col passare dei mesi io ero sempre più innamorata di lui, ma lui sempre più distante. Ogni tanto la sera veniva a letto e sapeva di alcol, ma a me ricordava quando ero giovane, i primi baci ai festini dove tutti avevamo bevuto un po' di più e non ci facevo caso. Tanti gli indizi che ho voluto trascurare. Se ci ripenso, durante la mia frequentazione con lui in casa mia finiva sempre il cartone di vino per cucinare e i super alcolici, che solitamente invecchiano nelle vetrinette, erano sempre mezzi vuoti. A casa sua la pattumiera del vetro era sempre stracolma e sulle mensole, al posto di souvenir e foto ricordo, c’erano centinaia di lattine di birra.

Un giorno mi dissero che al lavoro le cose stavano andando male per Mattia e che forse l’avrebbero licenziato. La sera provai a parlargliene, ma lui non sembrava preoccupato. Nei giorni successivi, però, tornava sempre più tardi e un giorno, mentre pranzavo al bar dove di solito si fermava Mattia prima di venire a casa, il barista mi prese in disparte e mi disse “Stai attenta, Mattia sta esagerando”.

A cena provai a chiedergli spiegazioni, ma lui cominciò ad urlare incessantemente. Niente lo fermava, nessun segno di pietà, urlava e basta, mi minacciava di dire a tutti le cose più intime di cui avevamo parlato, rompeva le cose a cui tenevo di più e i suoi bellissimi occhi verdi erano penetranti e cattivi. Mi spaventai e per farlo smettere ad un certo punto urlai più di lui, parlandogli a un centimetro dalla faccia. E lì Mattia scoppiò. Mi buttò contro il frigorifero facendomi male e, tenendomi schiacciata per il collo, cominciando a prendere a pugni il legno della cucina di fianco a me.

Si fece più male Mattia, ma io mi spaventai a morte.

Per fortuna lui scappò via, e io rimasi lì a piangere. Singhiozzi pesanti e profondi, come se tutta la paura della sua vita fosse piombata su di me in un secondo di esplosione.

I giorni seguenti iniziò a scrivermi messaggi folli, e io, ancora più atterrita, chiesi aiuto a mio padre, che decise di incontrare Mattia, sistemando, non so come, ogni cosa. Da quel giorno non lo vidi mai più. Mi scrisse qualche messaggio nei mesi successivi a cui rispondevo solo “No, perché mi fai paura”. E da lì non mi scrisse mai più.

A volte penso che il vero Mattia forse io non l’ho mai conosciuto. Se non bevesse, sarebbe la stessa persona che ho vissuto io o sarebbe una persona completamente diversa? Chi ho conosciuto veramente?

Un giorno mi raccontò che, quando era piccolo sua madre per poter uscire con un uomo, lo portò al cinema assieme al fratello. Quel giorno davano il film “Lo Squalo” e lui, decisamente troppo piccolo per quel genere di film, ebbe così tanta paura che uscendo si accorse di aver distrutto a morsi il suo cappellino.

La paura che io ho provato con lui è stata annientante, e a volte, penso che se il panico che ho provato contro il frigorifero è solo un decimo di quello che ha vissuto lui in tutta la sua vita, non c’è nulla di umano che si possa fare per aiutarlo, serve direttamente Dio, se esiste, perché il nostro stupido piccolo amore, da solo, non ce l’ha fatta.

A Mattia, ovunque tu sia ora.

Sotto l’albero, ovunque esso sia

Sotto l’amico albero nel giardino della casa dove è nato, Leo si sta rollando una sigaretta. Accarezza con cura la cartina stando attento a non fare cadere il tabacco, come in un gioco di abilità con sé stesso. Oggi si sente forte, forse perché è primavera, le gemme fanno capolino timidamente e la brezza non pizzica più la faccia. O forse solo perché è casa.

“Questa stagione rende romantici” pensò, ma dalle labbra non uscì nulla.

Sotto l’albero di casa, tra ombre e rumori fuori dal tempo, in bilico tra presente e passato Leo accende la sua piccola torcia di tabacco. La luce fioca della sera scende dietro le foglie amiche e per oggi la sua vita è tutta lì. Si appoggia alla corteccia, ma fatica a trovare il cuccio perfetto della testa, quello che lo sosteneva da piccolo quando il mondo diventava troppo per lui. Leo pensò che probabilmente, ora, l’amata cavità della corteccia fosse all’altezza della schiena. È cresciuto molto. Troppo. È diventato adulto, chissà se l’albero lo sa.

D’improvviso Leo scorge una figura in lontananza camminare verso di lui. Sgrana un po’ gli occhi per assicurarsi che sia reale e non sia un prodotto della sua testa matta.

E poi ancora quella voce.

“Lo sai che dicono che il primo respiro di un bambino sia quello che fa più male?”.

“Un male che assomiglia alla morte”, risponde piano Leo.

“O a una vergine presa di sorpresa”.

Leo si girò sperando di vedere veramente suo padre e che non abbia avuto l’ennesimo monologo con sé stesso.

“Papà? Sei tu?”,

“Non mi offri un tiro della tua?”, ammicco il padre con gli occhi taglienti.

“Come no, siediti, c’è posto da vendere sotto questo albero”.

È un albero molto vecchio, un albero imbevuto di sguardi pensierosi e di discorsi buttati al vento. Un’atmosfera carica di magia, foriera di incontri particolari.

Come nella volontà di non uscire da un bel sogno notturno, Leo prende un tiro della sua sigaretta e la passa all’uomo ora seduto di fianco a sé, senza alzare lo sguardo.

“Che ore sono?”, disse la figura accanto a lui.

“Cosa? Ah, sì sono le nove e mezza”.

Leo rispose distrattamente spostando la mano da un trifoglio che aveva involontariamente schiacciato.

“Papà, come pensi che sia l’ultimo respiro di un uomo?”,

“Leo, non devi vivere pensando all’ultimo respiro, devi vivere respirando ogni giorno l’aria che hai intorno e niente più”.

“Papà, quando mi sono seduto sotto questo albero, come ormai non facevo da più di trent’anni, mi sono sentito forte e nulla mi sembrava insormontabile. Quel bambino gracile, che dorme beato nella stanza dove sono cresciuto, stasera mi sembra null’altro che un bambino e non mi fa più paura”.

Un tiro di sigaretta per prendere fiato e poi aggiunse.

“Oggi mi ha sorriso quando gli ho dato il ciuccio, sembrava volesse ringraziarmi. Mi ha cercato con lo sguardo, sembrava volesse dire «papà prendimelo per favore». Aveva uno sguardo intelligente e non mi sembrava più vero quello che mi hanno detto in ospedale i medici. Gracile, solo un po’ gracile. Ma non malato”.

Il padre prese fiato per parlare, ma Leo lo fermò.

“Però papà, da quando ti sei seduto tu, mi sento un perfetto incapace e la strada mi sembra buia e troppo lunga”.

“E come ti senti ora che me l’hai detto? Ora che mi hai confessato le tue paure?”.

Un soffio di vento improvviso dissolse le parole del padre di Leo.

“Un po’ meglio”, rispose Leo sorridendo.

Si guardarono negli occhi come abbracciandosi con lo sguardo.

“Rientro in casa ora papà vado a vedere se al mio bambino manca qualcosa”.

E poi continuando nei suoi pensieri Leo disse a sé stesso: “Scusa papà se non ti vengo mai a trovare, il posto dove vivi è bellissimo, lo so, sotto un grande cipresso sulla punta della collina, tra capitelli di marmo bianco. Non ti ho mai detto quanto ti amo, papà, ma non importa, io so che tu lo sapevi, che ti ho voluto tanto bene”.

E intanto Leo guardava la cenere volare verso la collina sospinta dal vento.

“Leo”, disse una voce calda e forte, come uscendo direttamente da uno stomaco, “stai ancora parlando con tuo padre?”.

Leo si sentì strano e indagò nei suoi pensieri, riappoggiandosi all’amato albero.

“E dai che non importa. Lo vuoi un bicchiere di vino? L’ho avuto da Piero, oggi fa gli anni”.

A Leo vennero le lacrime agli occhi, ma con Betty poteva piangere e non se ne curò. Al primo sorso gli si riaprì il respiro, il vino rosso e fruttato, senza note pesanti e senza frizzare, scendeva deciso dentro di lui, un liquido color sangue che nel bicchiere trasparente non impediva alla fioca luce serale di attraversalo. Leo non si era nemmeno accorto della venuta della sua piccola Sara, aveva corso coi suoi piedini leggeri sull’erba senza nemmeno toccarla.

“Papà, papà, mi tagli gli angoli del foglio? Devo ritagliare le stelline per la maestra, ma ci sono gli angoli che si fermano dentro la forbicina”.

La piccola volava sull’erba come un folletto. Gettò il bicchiere contro le radici e si alzo battendosi le mani in testa. Sentì la mano di sua sorella sulla schiena come quando erano piccoli, calda e delicata e si risedette.

“Leo, pensi che qualcuno possa aiutarci?”.

Leo risiedendosi spense piano la sua sigaretta tra i sassi e sospirò, che il cielo potesse essere veramente in grado di aiutare qualcuno come loro, era un dilemma troppo grande per la sua testa, e poi voleva solo godersi i suoi fantasmi, il vino, la serata limpida e la sua bimba ancora viva.

“Betty, a che ora dobbiamo rientrare in manicomio?”,

“Dai non chiamarlo così che mi spaventi, e comunque spengono le luci alle dieci, ma ormai dopo tutto questo tempo qui dentro, noi possiamo fare quello che vogliamo”.

“È vero”.

“Sei a casa anche qui Leo, lo sai?”.

“Non lo so, no”.

Si strinsero la mano e continuarono a stare seduti li ancora un po'. Leo sapeva che non era veramente il suo albero del cuore, ma in un certo senso lo era comunque. E alla fine trovò una pace con sé stesso, ogni posto va bene per vivere quello che hai dentro, ma con la Betty accanto tutto risalutava un pochino più bello. E a Leo, per quella sera, bastava così.